[AAR] Pacific War – Engagement Scenario n. 01: Pearl Harbour

Per molti, Pacific War: the struggle against Japan 1941-1945 (GMT Games) di quel geniaccio di Mark Herman, rappresenta un vero punto di arrivo nell’hobby: alcuni lo definiscono un gioco monstre mentre altri lo bollano come eccessivamente simulativo e non ci si approcciano nemmeno. Ma chi riesce a superare l’ansia che i numerosi manuali contenuti nella grossa scatola (il doppio di una classica GMT) e le oltre 2000 pedine possono mettere addosso anche al più scafato dei Grognard, a chi riesce ad arrampicarsi sopra la ripidissima curva di apprendimento, Pacific War rivela le sue immense doti di simulazione profonda, complessa, capace di grande narrativa.

Quando mamma GMT ha dato alle (ri)stampe questo classico del wargame, già edito da Victory Games nel 1985, sono stato in dubbio se acquistarlo o meno, e non per il suo prezzo, sicuramente consistente, ma più che altro perché da neofita di questo mondo ho sentito dentro di me il complesso dell’ultimo arrivato, per cui pensavo di non essere all’altezza. Ma ho anche pensato (ed è quello che poi mi ha spinto all’acquisto) che non c’è nulla che la passione e la determinazione non possa superare, conoscendo anche la mia dedizione all’apprendimento quando si tratta di studiare corposi manuali!

La cosa bella di questo titolone di Mark Herman è che è strutturato con una attenzione particolare alla curva di apprendimento: è vero che essa risulta ripidissima fin da subito, ma è anche vero che, grazie al sistema che si potrebbe definire “dell’ingrandimento” del corpus di regole da masticare per giocare, si viene guidati per mano all’interno di una simulazione davvero profonda e complessa. Mi spiego meglio. Il grosso Scenario Booklet (72 pagine) contiene, in ordine, 8 engagement scenarios, 12 battle scenarios, 9 campaign scenarios e 5 strategic scenarios. Come si può intuire già dai nomi dati alle varie tipologie di scenario, essi ingrandiscono prospettiva, numero di regole necessarie, quantità di counter e tempo necessario per affrontarli: così, partendo dagli scenari di engagement (giocabili solo in solitaria), anche colui che è totalmente nuovo al titolo approccia le regole un poco alla volta, aumentando un po’ di più la mole di informazioni e conoscenze che necessita per “metterci le mani” e divertirsi. Gimme five, Mark!

In questa nuova serie che mi (ci) accompagnerà per luuuungo tempo, cercherò di giocare tutti gli scenari compresi nella scatola di Pacific War e ve li racconterò, non dando troppa importanza a regole e dettagli simulativi, quanto piuttosto alla storia che essi raccontano e alle sensazioni che si hanno a giocare e a studiare questa Opera Magna del nostro Herman.

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Veduta aerea di Pearl Harbour nel 1941 [Di USN – Official U.S. Navy photograph 80-G-182874, now in the collections of the U.S. National Archives. Also U.S. Navy National Museum of Naval Aviation photo No. 1996.488.029.051.]

Il 7 dicembre del 1941 una flotta di portaerei battenti bandiera giapponese e che portavano 389 aerei a bordo attaccarono la United States Pacific Fleet e la base militare di Pearl Harbour, sull’isola di Oahu, nelle Hawaii: ciò avvenne senza una formale dichiarazione di guerra (che già era stata inviata all’ambasciata giapponese negli USA ma che era stata decrittata in ritardo per poter essere consegnata al governo americano prima dell’attacco) e causò un’ondata di indignazione popolare negli USA e una recrudescenza dell’odio nei confronti del Giappone. Roosevelt definì il 7 dicembre del ’41 il “giorno dell’infamia” durante il discorso alla nazione in cui annunciò l’ovvia dichiarazione di guerra all’Impero del Sol Levante.

Il piano, concepito dall’ammiraglio Yamamoto, aveva come obiettivo la distruzione della flotta americana nel Pacifico, e mancò di poco il traguardo: seppur infliggendo enormi danni alla USPF (3 corazzate distrutte, 7 navi gravemente danneggiate, 2 mediamente danneggiate e 4 lievemente danneggiate, oltre 151 aerei e 2403 morti tra militari e civili), gli aerei nipponici non poterono centrare il bersaglio principale, le portaerei non presenti nel porto al momento dell’attacco; inoltre non furono intaccati ne i depositi di carburante ne l’arsenale della base. Anche se non fu un successo strategico (anzi, l’entrata in guerra degli Stati Uniti pesò, in prospettiva, sull’intero andamento del conflitto, non solo nel Pacifico ma anche in Europa contro le altre forze dell’Asse), sicuramente si rivelò un enorme successo tattico, garantendo al Giappone il temporaneo predominio del Pacifico e la possibilità di dare adito all’espansionismo imperialista che caratterizzava la sua leadership.

Setup iniziale per Pearl Harbour: si noti che, seppur giocato su una porzione di mappa davvero piccola, questo primo engagement scenario richiede già moltissimo spazio: Pacific War non è un gioco adatto a case piccole ne tanto meno a piccoli tavoli!

La prima cosa che bisogna fare per approcciarsi a Pacific War è non farsi intimidire dalla quantità dei materiali e dalla complessità di quell’intrico di tabelle e tracciati che sono i vari sheets a disposizione dei giocatori. Anche se a prima vista essi possono risultare complicati e di difficile lettura, quando ci si addentra nello studio dei manuali si rivelano ben strutturati e ben congegnati, uno strumento davvero utile per non dover consultare il manuale ad ogni piè sospinto.

Per quanto riguarda i counter, io ho adottato la tecnica di defustellare soltanto quelli che mi servono, di scenario in scenario. Oltre a facilitarmi nell’individuarli, questo mi permette di organizzare le varie ziplock (sì, uso le ziplock e non i counter trays) in maniera intelligente e organicamente funzionale ai vari setup, seguendo idealmente la filosofia di Herman “dal piccolo al grande”.

Pearl Harbour e tutte le unità americane contenute al suo interno, qui mostrate nel loro lato “attivo”, anche se durante lo scenario saranno tutte inattive. In alto a destra, i due counter delle Task Force giapponesi che contengono, come si vede nella prossima immagine, le portaerei e le navi di scorta della flotta.
Le due task force giapponesi. Come si può notare le sei portaerei portano ognuna un CAD – Carrier Air Division, i letali squadroni di caccia, bombardieri in picchiata e aereosiluranti.

L’engagement scenario n.01 è composto da due cicli di battaglia e si conclude con la vittoria se il giocatore (che impersona i giapponesi, ovviamente) ottiene 4 o più colpi su 6 delle 8 navi da battaglia (battleships) presenti nel porto e insieme riesce a distruggere almeno 12 step di aerei a terra, in tutti gli altri casi lo scenario è perso. L’obiettivo di studio dello scenario in questione è insegnare come funziona la procedura di movimento delle Task Force e la sequenza di combattimento delle missioni aeree. Seguendo la tracklist relativa agli engagement scenarios sul player aid sheet giapponese, ci si ritrova presto a dove designare con l’apposito segnalino la base americana su Oahu come obiettivo di una Strike Air Mission (ci sono altri tipi di missione aerea, ma li vedremo quando saranno introdotti): in questo tipo di missione, le forze aeree lasciano la loro base (in questo caso le portaerei giapponesi), volano sull’obiettivo, attaccano le forze nemiche e tornano da dove sono partite.

Nel primo ciclo di battaglia, per simulare la sorpresa che impedì agli americani di reagire efficacemente all’attacco giapponese, non c’è la possibilità per gli USA di intercettare gli aerei nipponici e tutte le unità aeree sono “non allertabili”, cioè non possono decollare per difendere la base, cosa che avverrà nel secondo ciclo di battaglia. Questo è un dettaglio importante da tenere a mente, cosa che io non ho fatto poiché leggevo le regole man mano che mi servivano e questo, ahimè, mi è costato la vittoria (ma non la soddisfazione di aver iniziato il mio apprendimento del gioco).

Le navi da battaglia statunitensi andate perdute nel primo ciclo di battaglia

I miei caccia volano indisturbati sulle acque calme dell’oceano fino ad arrivare in vista delle coste di Oahu: in pochi secondi è l’inferno. Gli americani, completamente colti alla sprovvista, non rispondono al fuoco, e per i piloti giapponesi è come fare il tiro al bersaglio. Seguendo gli ordini impartiti dai loro comandanti, gli squadroni di caccia e bombardieri in picchiata colpiscono le grandi navi da battaglia, in assenza dell’obiettivo primario delle portaerei, che per un caso sfortunato (o fortunato, in base alla parte che guarda l’evento) sono in mare in questo assolato giorno di dicembre. Alla fine del primo raid, la navi da battaglia USS Tennessee, USS California, USS Maryland, USS Pennsylvania, USS Arizona e USS Nevada sono affondate o comunque talmente danneggiate da essere inutilizzabili. Nessuna perdita rimarcabile per gli attaccanti, che ritornano alle loro portaerei per prepararsi al secondo raid.

La USS Arizona va a fuoco e si inclina dopo l’attacco degli aerei giapponesi.

Il primo impatto con la gestione delle tabelle non è dei migliori, ma dopo un po’ di studio riesco a capire come si devono leggere e allora tutto diventa molto chiaro. Utilissimi gli esempi sul Japanese Aid Sheet (uguali anche su quello americano). Seppur si tratti di uno scenario introduttivo, estremamente semplice e veloce, con una visuale molto alta rispetto alla battaglia (ogni esagono di mappa corrisponde a circa 100 miglia), vedere avvicinare gli squadroni all’isola e una dopo l’altra vedere colpite le navi americane da una strana sensazione, come di essere li, di vedere cosa sta succedendo, sentire l’esaltazione dei piloti giapponesi e il terrore inconsapevole degli americani. Mi emoziono a scriverlo, e sto giocando a questo gioco da solo una mattina.

Nel secondo ciclo di battaglia l’americano ha la facoltà di mettere in allerta i suoi aerei secondo la capacità di lancio della base, che essendo una large base ha una capacità di 18, il che gli consente di allertare tutti i caccia a terra, ed è qui che vengo fregato. Nella mia strategia, avevo pensato nel primo ciclo di battaglia di concentrarmi sul danneggiare le battleships, anche grazie al bonus dei torpedo che era attivo solo in quel momento, mentre nel secondo ciclo la mia intenzione era distruggere gli aerei fermi nei campi d’aviazione. Bravo scemo.

Ovviamente la non conoscenza delle regole mi ha portato a sbagliare le mie valutazioni, ma d’altronde anche così si imparano regole e strategie. Quando si attacca di sorpresa una base aereonavale come Pearl Harbour, nella prima ondata bisogna necessariamente concentrarsi sugli aerei a terra per evitare che nelle successive ondate questi possano prendere il volo e interferire. Io non l’ho fatto e siccome non è possibile bombardare a terra unità aeree che sono state allertate, gli step delle restanti unità aeree americane non allertate non mi consentiva di raggiungere il limite previsto per vincere lo scenario: in altre parole, non aver distrutto gli aerei a terra nel primo raid ha consentito agli americani di organizzare le difese aeree in vista del secondo, bloccando meglio di quello che sia andato nella realtà l’intento distruttivo giapponese.

Poco male perché questo mi ha consentito di prendere famigliarità con le regole di Detection e Search che il giocatore obiettivo della missione aerea può attuare per identificare le forze aeree attaccanti e avere più chance di difendersi meglio.

Le perdite statunitensi alla fine della partita: non abbastanza da farmi vincere, ma abbastanza da insegnarmi!

Sono davvero contento di come sia andata questa prima esperienza con Pacific War e non vedo l’ora di continuare la mia esplorazione di questo fantastico gioco. Mi ha lasciato davvero una voglia matta di giocare, e giocare, e giocare… e non me lo sarei mai aspettato da un gioco con una componente regolistica così importante.

Nel prossimo engagement scenario simuleremo la battaglia dell’isola di Savo: la peculiarità di questo scenario è che non si giocherà sulla mappa, ma solo sul Naval Combat Display, il che significa che ci tufferemo a capofitto nelle regole di combattimento navale, andando ad aggiungere un tassello al puzzle!

Continua così, giovane padawan…

Aerei statunitensi danneggiati a Ford Island, sullo sfondo le fiamme dell’USS Shaw [Fonte: Di USN – Official U.S. Navy photograph 80-G-19948, now in the collections of the National Archives. [1]]

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